Diario di una Fellow: l’importanza della pratica

Dimmi e io dimentico;
mostrami e io ricordo;
coinvolgimi e io imparo.
– Benjamin Franklin –

Una delle indiscutibili opportunità che il mio anno negli Stati Uniti mi ha regalato, è stata la possibilità di fare “pratica”.
Le esercitazioni su cadavere infatti in America sono all’ordine del giorno e per quanto spiacevole o impressionante possa sembrare questa attività, si tratta in realtà di un vantaggio importante.

Gli strumenti dedicati ai fellow

Ogni fellows ha a disposizione molti corsi per riuscire a fare pratica e sono le aziende stesse a fornire il supporto e i materiali per poter esercitarsi. Lo scopo è duplice: darti la possibilità di imparare, ma usando i loro prodotti!
In realtà si tratta di un doppio vantaggio per il fellow o neo-specialista, che non è aiutato nella sola pratica spicciola, ma che viene messo nelle condizioni di saper utilizzare un determinato prodotto e saper scegliere tra vari, il più indicato. Con il termine “prodotti” si intende davvero tutto: da particolari fili di sutura, a placche, viti, lame, cage, membrane biologiche, protesi.
Un bravo specialista infatti non è solo un chirurgo capace di “muovere le mani”, ma che sa usare con discernimento gli strumenti a sua disposizione, differenziando un caso da un altro per ottenere il massimo da una determinata procedura.

Il mio percorso tra la teoria e la pratica

Il corso, tenuto a Baltimora dal dottor Mark Myerson stesso all’inizio dell’anno, così come quello artroscopico patrocinato dalla dottoressa Rebecca Cerrato, sono stati per me molto utili.
Il primo mi ha permesso di approfondire il mondo delle osteotomie. Come si può immaginare l’approccio teorico e quello tecnico, ad un determinato problema, sono molto diversi. Un conto è fare una diagnosi valutando clinicamente il paziente ed impostare una terapia conservativa o chirurgica, un altro è eseguire una determinata procedura.
Nessuno dei due è più importante rispetto all’altro. Sono complementari ed insieme permettono di arrivare alla risoluzione del problema.

Le criticità non si fermano alla diagnosi

Sarebbe superficiale pensare che, una volta fatta la diagnosi, il problema sia risolto, così come lo sarebbe ritenere unico e fondamentale l’approccio chirurgico che ci assimilerebbe più a dei maniscalchi invece che a medici ortopedici.
Vi sono varie difficoltà nell’approccio chirurgico che partono dal corretto posizionamento del paziente sul lettino operatorio. I corsi ci insegnano proprio questo: nulla deve essere sottovalutato e il chirurgo deve mettersi nelle condizioni di lavorare al meglio, perché nessuno penserà per lui o entrerà in suo aiuto se in difficoltà.
Il corso artroscopico mi ha aiutato a prendere confidenza con l’idea di non poter guardare direttamente ciò che si fa, dovendolo osservare attraverso uno schermo. Non è stato facile ritrovare i miei punti di repere all’interno dell’articolazione tibio-tarsica, né coordinare i movimenti con lo sguardo fisso sullo schermo, ma una volta presa confidenza con lo strumentario, terminare la procedura chirurgica è stato divertente e molto appagante!
Solitamente, per renderli più completi, i corsi di approfondimento vengono divisi in due parti: una parte teorica e una pratica. La teoria però è spesso molto avvincente. Si tratta infatti di casi clinici che vengono mostrati alla platea di fellows i quali devono esporre dubbi, motivazioni e soluzioni. Davvero momenti molto utili e, per me, preziosi.

La teoria e la pratica a livello italiano

È sicuramente scorretto e superficiale pensare che tutto quello che avviene al di fuori del nostro Paese sia per forza migliore, tuttavia devo ammettere che vi sono alcuni concetti che dovremmo sforzarci di apprendere e modificare come l’insegnamento, che non può essere sempre ridotto alla teoria, ma che deve coinvolgere, appassionare ed essere anche mirato agli scopi pratici della vita.

A domanda, risposta

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