Il piede cavo: le soluzioni terapeutiche sono correlate alle sue cause
In questo articolo parliamo in dettaglio di:
Il piede cavo è una deformità che può essere congenita o acquisita.
Il piede cavo è caratterizzato, come facilmente si ricorda, da un’accentuata arcata plantare, ma non è in realtà questa l’unica né la più importante caratteristica.
Un piede cavo infatti è caratterizzato dal tipico varismo del retropiede (il calcagno tende quindi a rivolgersi internamente) e da un abbassamento del primo metatarso con associata la griffe di tutte le dita.
Il piede cavo è in realtà molto meno comune del piede piatto, ma come il piatto, non è sempre indice di patologia. Si parla infatti di un piede cavo patologico quando le caratteristiche del cavismo diventano iper-espresse.
Biomeccanica del passo
Prima di parlare di classificazioni del piede cavo bisogna però avere chiari alcuni concetti di biomeccanica.
È bene sapere che il nostro piede ha bisogno di essere cavo e piatto.
Infatti durante le fasi del passo il piede si comporta, in appoggio come un ammortizzatore, diciamo pure “una molla” e quindi diventa piatto, mentre per permettere la fase di spinta, quindi propulsiva, deve trasformarsi in una leva rigida e per questo deve essere cavo.
Un piede cavo, quindi, ha un vantaggio funzionale nella fase di spinta ed uno svantaggio nella fase di appoggio in quanto non sarà “bravo” ad ammortizzare.
In tutto questo hanno un ruolo fondamentale, non solo un telaio composto da 26 ossa, ma anche muscoli e tendini, in particolar modo la volta plantare che è un complesso osteoarticolare, muscolare e legamentoso che grazie alla sua elasticità è in grado di adattarsi alle incongruenze del terreno e di trasferire nel modo migliore il peso corporeo in ogni posizione di appoggio.
Piede cavo: le cause
La classificazione del piede cavo è strettamente correlata alle sue cause.
Molte sono state le classificazioni in passato, ma anche nel presente, che parlano di piede cavo:
- varo;
- valgo;
- misto.
Un modo però più semplice per parlare della classificazione del piede cavo è partire dalle cause stesse che lo provocano. Le cause del piede cavo, che possono essere congenite o acquisite, sono varie e riconducibili in 3 grandi branche:
- scheletriche;
- neurologiche;
- post-traumatiche.
Piede cavo: cause scheletriche
Quando si parla di piede cavo dovuto ad alterazioni scheletriche, varie sono le cause che possono aver portato al manifestarsi di questa patologia.
Si può parlare infatti di deformità indotte dalla degenerazione articolare, di piede cavo “forefoot-driven” e “hindfoot-driven“.
Manoli fu il primo a parlare di piede cavo dividendolo in due entità nosologiche ben distinte:
- forefoot-driven (determinate dall’avampiede);
- hindfoot-driven (determinate dal retropiede).
Il piede cavo, determinato dall’avampiede, è associato e causato da una plantarflessione del primo metatarso. Il piede tenderebbe al cavismo e il retropiede alla supinazione proprio come risposta di adattamento alla plantarflessione del primo metatarso.
Al contrario il piede cavo “hindfoot-driven” determinato dal retropiede, non è legato solo alla plantarflessione del primo metatarso, che è in ugual modo presente, ma vede anche una supinazione autonoma del retropiede, il calcagno quindi non è in asse.
Questa differenza apparentemente così semplice, può essere difficile da cogliere e condiziona qualsiasi scelta terapeutica successiva.
Torna in cima
Piede cavo: cause neurologiche
Il piede cavo neurologico può essere congenito o acquisito e rappresenta circa il 70% dei casi di piede cavo.
Il piede cavo neurologico è conseguente a squilibri muscolari dovuti a patologie di origine neurologica: malattie ereditarie e familiari come la malattia di
- Charcot-Marie-Tooth;
- la malattia di Friederich o la spina bifida;
- paralisi spastiche,
- lesioni midollari, spino-cerebellari e delle radici spinali.
Tra le patologie neurologiche congenite più comuni e diffuse troviamo la sindrome di Charcot-Marie-Tooth 1 e 2 (CMT 1-2).
Si tratta di patologie neurologiche ereditarie, cioè indipendenti dal sesso, a cui si aggiungono le più rare CMT-4 (trasmissione autistica recessiva) e CMT X (a trasmissione “X-linked” dominante).
Queste malattie portano ad una progressiva demielinizzazione degli assoni, causando un rallentamento dello stimolo inviato dal neurone lungo il suo assone, che quindi perde di efficacia.
Nella pratica clinica questo porta ad una inefficiente muscolatura: i primi muscoli a risentirne sono quelli intrinseci portando alla tipica deformità a griffe delle dita.
A seguire vengono solitamente coinvolti i muscoli tibiale anteriore e i peronieri causando una difficoltà alla deambulazione e al così chiamato “drop foot” (piede che cade) a causa dell’impossibilità del paziente di sollevare completamente il piede da terra.
Esistono, poi, patologie neurologiche acquisite, che spesso, nel caso di piede e caviglia sono legate a danni che colpiscono singoli o gruppi di nervi conseguenti a patologie ischemiche centrali/periferiche, a danni diretti (traumi) o iatrogene.
Torna in cima
Piede cavo: cause post-traumatiche
Spesso, pazienti che hanno subito traumi al piede (in particolare calcagno) e caviglia si ritrovano con un piede cavo post traumatico: lamentano una riduzione del movimento delle loro articolazioni e una sensazione di asimmetria, confermata da un disarmonico consumo delle calzature, oppure accusano un dolore presente sia durante il passo che a riposo.
I traumi che più tipicamente possono portare a sviluppare un piede cavo post traumatico sono traumi che coinvolgano l’articolazione sottoastragalica e il calcagno.
Si tratta di casi molto complessi nei quali però non bisogna focalizzarsi solo sulla deformità del piede, ma indagare con attenzione anche l’articolazione sovrastante: la caviglia.
Non è raro in questi pazienti riscontrare in associazione al piede cavo post traumatico anche un’artrosi di caviglia post traumatica.
In questi pazienti la deformità si manifesterà in varismo sia per il retropiede che per la caviglia. Questi casi lasciati al loro naturale decorso inducono un progressivo peggioramento della deformità e della funzione.
Una diagnosi precoce di artrosi post-traumatica e conseguente deformità permette di pianificare una chirurgia ricostruttiva che, come spiegato, può non essere limitata solo al piede, ma coinvolgere anche la caviglia.
Torna in cima
I sintomi del piede cavo
Il piede cavo è una deformità che può presentarsi secondo svariate forme e con sintomatologia differente secondo la gravità del quadro.
I sintomi lamentati dai pazienti posso essere legati all’avampiede e quindi alla griffe delle dita che urtando dorsalmente contro la scarpa possono arrivare ad ulcerarsi, o ancora ad una ipercheratosi plantare causata dalla plantarflessione del primo metatarso.
Inoltre a causa della supinazione del piede e al conseguente sovraccarico del V metatarso possiamo ritrovare anche a questo livello, una importante l’ipercheratosi, ovvero un callo, che è la prima difesa dell’organismo di fronte ad una sollecitazione impropria causata dal piede cavo.
I problemi principali si verificano, però, a livello di retropiede e caviglia, dove la deformità è sinonimo di alterazioni dei carichi e conseguente rischio di instabilità (instabilità peritalare).
I pazienti in questi casi lamentano dolore all’interno della caviglia fino ad arrivare alla sensazione di instabilità, cedimenti e traumi distorsivi ripetuti alla caviglia.
Torna in cima
Piede cavo: visita specialistica
Lo specialista ha il non sempre facile compito di arrivare ad una diagnosi di certezza. Non in tutti i casi è semplice ricondurre la sintomatologia del paziente ad una causa. Non tutti i casi infatti sono uguali o da manuale specialmente quando si parla di deformità importanti.
È fondamentale per il medico osservare il paziente mentre cammina, valutare bene le fasi del passo ed eseguire alcuni test specifici come il “Coleman Block test” che permette di capire se ci troviamo davanti ad un “forefoot-driven”, piede cavo determinato dall’avampiede o “hindfoot-driven” piede cavo determinato dal retropiede.
Altrettanto importante è però raccogliere l’anamnesi del paziente e la sua storia.
Numerosi traumi distorsivi, sensazione di instabilità sono spesso molto indicativi e possono guidare verso la diagnosi.
L’esame principe indispensabile per lo specialista rimane la radiografia del piede e della caviglia in carico (quindi eseguita stando in piedi).
Grazie a questa si può infatti osservare la conformazione dello scheletro e possono essere evidenziate facilmente da occhi esperti i tratti che caratterizzano un piede cavo:
- varismo del calcagno;
- primo metatarsale plantarflesso;
- eventuali segni di artrosi localizzata a livello di retro e meso piede.
Anche la RMN (risonanza magnetica) può essere di grande aiuto non solo per la diagnosi di lesioni legamentose, che sono conseguenza del cavismo e non la causa, ma anche lesioni osteocondrali (lesioni cartilaginee) da ricondurre alle plurime distorsioni di caviglia, tipiche del paziente con un piede cavo.
Sicuramente un capitolo a parte deve essere riservato ai pazienti neurologici per i quali una stretta collaborazione tra ortopedico e neurologo diventa indispensabile per una corretta diagnosi ed un corretto trattamento.
Torna in cima
Piede cavo: l’algoritmo terapeutico
Terapie conservative
La terapia conservativa non sempre risulta soddisfacente per il paziente né tanto meno per il chirurgo, nel trattamento del piede cavo. Tuttavia, in alcuni casi selezionati può rappresentare una terapia di successo.
Infatti nel paziente con un “forefoot driven” e quindi un piede cavo guidato dall’avampiede, un plantare su misura può essere una valida opzione terapeutica.
Al contrario invece, un paziente con un piede cavo determinato dal retropiede, non beneficerà a lungo termine di un approccio conservativo con plantare. Inoltre è bene ricordare che un plantare non ha un ruolo correttivo nei confronti della deformità, né è in grado di arrestarne la progressione.
Un altro gruppo di pazienti che può beneficiare della terapia conservativa sono i pazienti affetti da un cavismo neurologico.
In questi casi i tutori ortopedici rappresentano un aiuto importante per permettere al paziente una più naturale deambulazione. Non dimentichiamo però che la chirurgia può arrivare in alcuni casi selezionati a permettere un recupero ed un controllo attivo di quei movimenti che consentirebbero al paziente di camminare autonomamente senza tutori.
Torna in cima
Intervento chirurgico
Oggi, la chirurgia offre un valido strumento sia per i pazienti in cui la patologia ha già indotto deformità importanti, sia nei pazienti in cui questo non è ancora avvenuto.
Nei rari casi di “forefoot driven” in cui l’approccio conservativo non sia soddisfacente, si rivela necessaria una scelta chirurgica di osteotomia del primo metatarsale, eseguibile, oggi, con tecniche a bassa invasività, con tempi di recupero rapidi.
Pazienti affetti da un “hind-foot driven” sono invece più frequentemente candidati ad una chirurgia ricostruttiva che prevede osteotomie multiple a correggere la deformità. Si parla quindi di osteotomie di calcagno per ripristinare il corretto asse, osteotomie estensorie del primo metatarso per correggerne la plantarflessione, e trasposizioni tendinee per ripristinare una corretta funzione muscolare.
In casi avanzati dove la deformità è ormai rigida e non più correggibile tramite osteotomie, è necessario ricorrere ad interventi di artrodesi.
Si esegue quindi una vera e propria fusione di una o più articolazioni con la finalità di bloccare il piede nella posizione corretta. Si tratta di metodiche più invasive, ma assolutamente affidabili che hanno tempi di recupero poco superiori agli interventi di osteotomia ossea.
Nei pazienti con problemi neurologici , ma solo in alcuni casi selezionati, è inoltre possibile eseguire transfer tendinei per permettere la ripresa della funzionalità di muscoli deficitari e recuperare una corretta deambulazione.
Torna in cima
Intervento di correzione del piede cavo: i tempi di recupero
Il tempo di recupero dipende essenzialmente dalla tipologia di intervento, a sua volta strettamente correlate alla tipologia e gravità della deformità.
Generalmente, osteotomie e transfer tendinei richiedono l’immobilizzazione per 30 giorni in uno stivaletto gessato sul quale non è concesso il carico.
Rimosso il gesso al paziente è concesso il carico fin da subito. Un grande aiuto può essere fornito dall’idrokinesiterapia (camminare nell’acqua) permettendo al paziente di velocizzare i tempi di recupero.
Il ritorno alla guida è possibile dopo circa 50 giorni dall’intervento, mentre la completa soddisfazione del paziente e la ripresa dell’attività sportiva dopo 3/6 mesi.
I tempi per le procedure di artrodesi sono invece un po’ più lunghi. Lo scarico (l’arto operato non deve appoggiare a terra) deve essere mantenuto per 50 giorni.
Una piccola parentesi invece deve essere aperta per gli interventi di transfer tendinei nei pazienti con deficit neurologici che possono richiedere tempi di rieducazione al passo più lunghi e sono da valutare caso per caso.
Torna in cima