Ho eseguito il primo impianto, in Belgio, di protesi di caviglia “TM ZIMMER ANKLE ©”

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Il giorno prima

Ore 21:00: Kortrijk (o Courtrai per i Francofoni) una città di 75.000 abitanti del Belgio fiammingo.

La mia giornata era iniziata all’alba, in Italia, per le consuete visite di controllo ai pazienti degenti in ospedale. Poi lunghe ore di studio per le visite programmate.

Un lungo, intenso e molto vario scambio comunicativo con persone diverse, ognuna con la sua storia, con un problema importante, indipendentemente dalla natura dello stesso, perché è un problema personale. Persone con aspettative umane, in alcuni casi irraggiungibili, ma in ogni caso con problemi e richieste concrete.

Cosa mi porta a prendere un aereo di corsa alla fine di questa giornata, volare a Bruxelles, salire su un taxi e viaggiare per più di un’ora per incontrare il team che mi accompagna nelle mie esperienze internazionali?

I più penseranno che sono i soldi, ma non è così. Stare chiusi per ore in studio, comodi e tranquilli frutta sicuramente di più.

Il motore di tutto questo è la passione, la voglia di crescere, imparare, apprendere per migliorarsi e fare sempre meglio questo lavoro, non per me ma per i miei pazienti.

Essere un consulente Zimmer significa contribuire allo sviluppo di prodotti, vedere concretizzarsi le proprie idee in fatti; fenomeno molto raro soprattutto per un giovane chirurgo per di più italiano, in un mondo dominato dall’America. Anche per questo partecipo a numerosi meeting in cui parlo del mio lavoro, a cadaver-labs in cui illustro le mie tecniche operatorie ed agli incontri con ingegneri che sanno trasformare buone idee in fatti.

Ebbene sì, ci penso spesso: anche in un lavoro così apparentemente “freddo” si possono provare emozioni.

Quella di aver impiantato la prima protesi “resurfacing” (TM Zimmer Ankle) in Spagna, per esempio, in Svizzera e domani in Belgio.

Mi addormento con la consapevolezza che è questo il vero motore del mio lavoro.

Il Day 1

Ore 6.30: colazione e meeting.

Incontro chirurghi che, tra un caffè ed una spremuta, mi chiedono pareri su casi clinici passati ma anche sui miei prossimi interventi. La mia opinione li tranquillizza, li rassicura, dando loro la consapevolezza di avere a disposizione altre prospettive. Ma a volte sono io che cambio la mia prospettiva. E’ quella che io chiamo “Sharing knowledge“: scambiare le proprie conoscenze per metterle al servizio del bene del paziente.

Ore 08:00: si va in scena, entro in sala operatoria.

Il paziente mi vuole conoscere.

Ha completa fiducia nei colleghi che gli hanno proposto l’intervento, ma vuole guardare negli occhi il chirurgo che è venuto per lui dall’Italia. Incrocio il suo sguardo, scambiamo poche parole in una lingua che non è né la mia né la sua, comunichiamo. E’ questo quello che conta. Inizia l’intervento. Mi soffermo ad osservare piccole prassi diverse dalle mie nella preparazione (campo operatorio). Interessante, penso.

Stiamo per impiantare una protesi di caviglia di ultima generazione. Per poter eseguire l’intervento è necessario compiere tanti passaggi e gesti chirurgici da apprendere e controllare sapientemente dopo tanta pratica. Al mio fianco c’è Matteo Limonta, specialist della Zimmer, a vigilare sull’intero processo e sul lavoro dello staff. Un altro giovane italiano accreditato a livello internazionale. I miei colleghi, quasi sempre chirurghi esperti all’apice della carriera, che intraprendono questa tecnica per le prime volte hanno bisogno di essere guidati. Ed io do il massimo perché la volta successiva non abbiano bisogno di me e si sentano tranquilli.

Ma adesso è arrivato il momento, accordati gli strumenti, inizia la sinfonia. Tutto lo staff mi segue, siamo in sintonia.

Un team italiano in partnership con una multinazionale americana: una rarità.

Arriva la radiografia per il controllo finale: siamo soddisfatti. Sorridiamo, ci stringiamo la mano: come al termine di una partita di tennis serrata. L’opera è ben riuscita, ancora una volta.

È grazie ad esperienze come questa che sono arrivato ad elaborare e sviluppare il mio progetto di fellowship, un programma di training per giovani chirurghi di cui vado molto fiero e che anche la mia collaborazione con Zimmer ha reso possibile.

Ore 23.00: rientro a Milano, stanco ma soddisfatto.

Non è stato il mio primo intervento all’estero, ma questo ha un sapore speciale perché anche Zimmer oggi è diventata un’azienda ancora più grande dopo la fusione con Biomet.

Il mio Day 1 con la Zimmer-Biomet è giunto al termine. Vado a dormire, e sorrido.

A domanda, risposta

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