Protesi di caviglia e il team C.A.S.C.O: l’evoluzione della tecnica chirurgica

protesi caviglia

Venerdì a Londra si è tenuto il primo «user meeting» europeo per la protesi di caviglia Tm-Ankle.
È la protesi di caviglia di cui mi trovo spesso a scrivere su riviste scientifiche, a parlare a meeting ed a comunicare sulle mie pagine in cui “incontro” i miei pazienti ed i malati di artrosi di caviglia in generale (Facebook, blog).
Non sono un caso i titolo delle mie due “Lectures”:
1) Paradigm Shifting
2) Italian Experience and learnt lessons.

La chirurgia del piede e della caviglia. Ricerca ed economia che finalmente si incontrano. Una bolla o un futuro roseo?

Ogni grande azienda con interessi in Ortopedia sta investendo nel “Foot and Ankle”.
Secondo una prospettiva economica, pare essere un “mercato” in crescita. Secondo una prospettiva scientifica, pare essere un campo dove c’è tanto da studiare: biomeccanica, neuro-propriocezione, biologia e rigenerazione tissutale.
Sorge una domanda spontanea: “Ma il piede e la caviglia venti anni fa non esistevano? Nessuno aveva problemi e nessuno aveva interessi a curarli?”
In realtà, un’affermazione del genere è ingenerosa nei confronti dei nostri predecessori, grandi chirurghi italiani e grandi chirurghi del mondo. Con tanti ho avuto la fortuna di lavorare, da tanti ho imparato.
È la conferma che una tradizione esisteva. Indubbiamente l’Italia in questo ha fatto scuola!
È un piccolo mondo, ma in questo piccolo mondo bisogno essere orgogliosi delle pagine che hanno scritto gli italiani!
Quando penso, per esempio, alla mia giovane carriera di ortopedico specialista in Chirurgia della Caviglia e del Piede, non posso certo dimenticare quanto ho appreso dai miei maestri stranieri. Tuttavia, devo davvero ringraziare i maestri italiani, che mi hanno messo nelle condizioni di poter applicare quello che ho imparato.
Ogni giorno, quando lavoravo con Mark (Myerson, ndr), per esempio, vedevo passare chirurghi provenienti da ogni parte del mondo, una sorta di grande Babele. Non tutti, però, tornavano a casa portandosi una lezione utile, non tutti tornavano migliori di prima.
Questo era possibile solo per i chirurghi che avevano un background forte e solido costruito prima dell’esperienza internazionale.
Con il tempo, negli ultimi 20 anni si sono sfatati tanti tabù e limiti scientifici, che prima parevano regole d’oro: l’alluce valgo recidiva, il piede piatto non si corregge, il piede diabetico non si opera, fino ad arrivare ai nostri giorni.
La caviglia quando è artrosica si deve bloccare, la caviglia non si può protesizzare. Oggi è un assioma assurdo!
Superando questi paradigms, noi chirurghi ortopedici abbiamo cominciato ad avere bisogno di strumenti che prima non esistevano.
Ecco perché è nato un mercato. La necessità di disegnare e produrre nuovi strumenti che si conciliassero con le nuove idee dei chirurghi è stata il motore di questo processo di profonda innovazione.
Questa esigenza è diventata davvero forte e ogni grande azienda ha visto un’opportunità di crescita nella chirurgia della caviglia e del piede.
Talvolta, però, nella storia succede che grandi opportunità si trasformino in bolle speculative ed in profonde delusioni.
È una responsabilità congiunta di chirurghi ed aziende.
Infatti, è compito dei chirurghi non limitarsi ad “utilizzare” strumenti semplicemente nuovi, ma interrogarsi sui risultati ottenuti. In questo modo si potrà garantire uno sviluppo coerente con le reali potenzialità delle nuove tecniche terapeutiche.
Compito delle aziende sarà, invece, di non perseguire esclusivamente immediato profitto, investendo in ricerca e nuovi prodotti, ma anche nell’educazione e nel training dei chirurghi.
Queste nuove opzioni terapeutiche si devono dimostrare efficaci non solo nelle mani dei chirurghi designers.

TM-ANKLE: protesi di caviglia e paradigm shifting.

Protesi di caviglia Mobile, fix bearing e resurfacing

Negli ultimi 20 anni si sono sviluppate diverse protesi di caviglia.
In Europa si è seguito il filone del “mobile-bearing”, ossia protesi costituite da 3 “pezzi”: la componente tibiale, quella astragalica ed il polietilene mobile tra le due.
Negli Stati Uniti si è sviluppato il filone del “fix bearing”, cioè protesi di due elementi, senza il polietilene mobile.
Le due teorie hanno entrambe vantaggi e svantaggi.
La protesi di caviglia mobile-bearing, tramite, un movimento distribuito su più superfici riduce gli stress peri-articolari a cui sono soggette le componenti protesiche. In poche parole, si ha un minor rischio di mobilizzazione della protesi. D’altro canto, nel mobile-bearing si è osservato un aumentata presenza di cisti periarticolari. Significa che si sono osservate delle cisti osse asintomatiche, probabilmente legate proprio all’azione del menisco mobile.
La protesi di caviglia fix bearing parrebbe essere esente dalla formazione di queste cisti, ma d’altro canto incrementa lo stress sulle superfici articolari ed il rischio di mobilizzazione delle componenti a lungo termine.
Ecco perché nel tempo si è cercato di avvicinarsi il più possibile alla forma originaria e naturale della caviglia. È il concetto della protesi di caviglia resurfacing: significa limitare al minimo l’intervento sull’osso e cercare di avvicinarsi anatomicamente all’articolazione tibiotarsica, che la natura ha previsto.
Innanzitutto, la caviglia sana consta di due superfici curve: il dome astragalico ed il platfond tibiale. Ecco l’idea dei tagli curvi e, pertanto, di una protesi che rispetti questo concetto.
Figlio di questa primo principio è una nuova tecnica di impianto che prevede un approccio chirurgico laterale.
Infatti, un accesso laterale alla caviglia permette di visualizzare il centro di rotazione di questa articolazione e di scegliere dove posizionare quello nuovo. Sarà, poi, possibile costruire intorno ad esso la nuova caviglia, modellando le superfici articolari di tibia e astragalo mediante una sorta di compasso tagliente.
Ecco perché questi due principi rappresentano davvero un cambio di prospettiva, un modo nuovo di pensare all’artrosi di caviglia, alla deformità ed alla soluzione del problema, preservando il movimento e ricostruendo una caviglia in asse.
L’obiettivo è quello di offrire al chirurgo un profondo cambiamento di visuale. In questo modo sarà possibile pianificare con riproducibilità la correzione della deformità e disfunzione associate all’ artrosi di caviglia.

I problemi e le deformità del paziente artrosico

Classicamente i problemi da risolvere congiuntamente all’artrosi sono deformità in equinismo, varismo, valgismo e traslazionali.
L’equinismo è quella condizione anatomica per cui il paziente si vede costretto a mantenere la caviglia ed il piede “in punta di piedi” ogni qualvolta esegue un passo, iperstendendo (buttando indietro) il ginocchio.
Il varismo, invece, induce il malato ad appoggiare esclusivamente sul bordo esterno del piede.
Il valgismo, infine, costringe il paziente artrosico a camminare con l’arto extra-ruotato e la “gamba aperta” ed il “piede che cede all’interno” ad ogni passo.
Sono tutte deformità che devono essere corrette per ottenere un impianto fisologico che duri nel tempo. Ovviamente, l’obiettivo finale è di migliorare nel complesso la funzionalità dell’arto inferiore malato, offre un beneficio indiretto a ginocchio ed anca.

Italian experience and learnt lessons


La seconda lecture mi ha spinto, invece, a spiegare la nostra personale evoluzione nell’eseguire questo intervento. Con un po’ di campanilismo, mi sono emozionato a constatare come l’esperienza del mio gruppo con TM-Ankle sia al momento la più ascoltata in Europa. Abbiamo superato i 140 impianti eseguiti.
Questo rende i nostri numeri unici nel mondo.
Parlare della nostra evoluzione, significa condividere i problemi che all’inizio abbiamo affrontato e offrire ad altri chirurghi le nostre soluzioni.

L’evoluzione della tecnica chirurgica

Quando si intraprende una strada nuova, si hanno spesso grandi vantaggi, se la strada è quella giusta. Talvolta, tuttavia, ci si ritrova ad essere i primi su un sentiero mai battuto. Ecco, quindi, che mi sono ritrovato a spiegare perché nel primo periodo, abbiamo utilizzato il tourniquet e poi cosa ci ha spinto a farne a meno. Il tourniquet è un laccio applicato alla coscia per fermare la circolazione dell’arto durante l’intervento.
Non averne più bisogno, per noi ha rappresentato un grande passo in avanti. Ne ha beneficiato direttamente il paziente in termini di controllo del dolore post-operatorio.
Ho spiegato, poi, come, nel tempo, la nostra incisione (il taglio chirurgico) si sia ridotta fino a diventare oggi di soli 6.5 cm. Si può pensare che questo rappresenti un beneficio estetico o un esercizio di mero virtuosismo chirurgico. In realtà, è un’attenzione a ridurre l’invasività dell’intervento e con esso il rischio di alcune complicanze, come il ritardo di guarigione della ferita, che nel tempo si è fatto sempre meno problematico.
Ho parlato di come l’osteotomia del perone sia cambiata nel tempo. L’attenzione è sempre quella di preservare. Ecco perché oggi siamo sempre più “bassi” con questa osteotomia e sempre più vicini al piano articolare. La sindesmosi è una struttura che vogliamo preservare e questa cambiamento ha questa finalità.
Infine, la possibilità di lavorare con i caschi sterili, ci ha permesso di affrontare con una serenità in più il tema della sterilità dei nostri interventi.

Il team C.A.S.C.O.

Il tema principale della mia presentazione è, però, stato quello del valore dell’equipe. Ritrovarsi tutti insieme a guardare verso un unico obiettivo, è un privilegio! Discutendo con tanti chirurghi europei, è un bisogno che assolutamente si avverte.
Molti colleghi si ritrovano a lavorare ogni giorno con equipe che cambiano continuamente: colleghi diversi che li aiutano, infermieri diversi che li sostengono durante l’intervento, anestesisti diversi che si prendono cura del paziente prima, durante e dopo l’intervento.
Questo, nella migliore delle ipotesi, si traduce in una dilatazione dei tempi chirurgici.

La chirurgia non è una corsa contro il tempo, ma ridurre il tempo chirurgico senza perdere affidabilità è un valore

Se oggi parliamo della nostra esperienza e delle lezioni che abbiamo imparato, è possibile perché ci conosciamo a memoria.
Cristian, Luigi, Camilla, Claudia sanno cosa spiegare al paziente quando entra in ospedale e sanno cosa chiederò loro durante l’intervento.
Ferdinando, Ilaria, Laura, Liviu e Luca sanno cosa chiederò loro prima del tempo e avranno saggi consigli da offrirmi. La consueta delicatezza di professionisti che hanno fiducia in quello che fai e che vogliono apportare il loro contributo: questa è la chiave!
Daniele, Domenico e Oleg  sanno come posizionare il paziente e monitorare ogni parametro: io grazie a loro lavoro in sicurezza!
Loredana, che li coordina, fa in modo che io faccia davvero il chirurgo e non abbia altre preoccupazioni per la testa durante la mia attività.
Questa è la più grande lezione che il team CASCO ha da trasmettere quando viene chiamato a parlare delle propria esperienza: il valore del TEAM!

A domanda, risposta

Passo 1 di 3